L’altrove a pochi chilometri

19 December 2013

C’è questa sorta di snobismo diffuso in rete verso il termine “turista”. Nessun copy usa mai il termine “turista”, è dispregiativo. Nessun blogger si definirebbe mai un turista. Siamo tutti viaggiatori, anche quando prenotiamo su Groupon il weekend nell’agriturimo in Toscana con trattamento benessere e percorso degustazione a 199 euro a coppia. Anche quando ci facciamo ospitare dall’albergo 4 stelle in Trentino in cambio di un post sul blog. Tutti viaggiatori della democrazia digitale pronti a instagrammare il bicchiere di vino al tramonto chiamandolo storytelling.

Un paio di settimane fa ero alla BTO, che per chi non lo sa è una roba dove si parla turismo e web, e c’era questo membro della società geografica italiana che definiva il viaggio come trasgressione, l’andare l’oltre le soglie del conosciuto.


Lì lì per lì la frase è stata lo spunto buono per un tweet che ha raccattato qualche RT e è stato sepolto da altri tweet, altri RT, altre foto di cene, e cheese-cake e dita a V e ali di aereo.

Mi è tornata in mente domenica scorsa, quando sono tornata a Napoli dopo un giro di un paio di settimane tra Firenze, Milano e Parigi. Tra la stazione e l’auto ci sono duecento metri, trecento metri di strade affollate di spazzatura, negozi di cinesi, bancarelle che vendono calzini a 50 centesimi, panni stesi ad asciugare di smog. C’era l’ufficio degli autobus che da Piazza Garibaldi ti portano diritto a Bucarest: fuori una lunga fila di persone cariche di pacchi. Probabilmente consegneranno solo i pacchi, da portare su in Romania, regali di Natale per chi è rimasto là. Regali per qualche bambino che forse avrà scritto a Babbo Natale che vuole solo rivedere sua mamma.

Ad un certo punto si attraversa un mercato. Signore polacche, ucraine, rumene, tutte truccate con cura e precisione, scavano tra gli stand di pellicce sintetiche e tute per la neve per bambini. Le bancarelle vendono sullo stesso piano bottiglie di vodka e di chanel n5. In un angolo grigliano degli spiedini di carne dall’odore invitante, nell’altro hanno attrezzato un barbiere di fiducia. Un vecchietto sdentato si fa tagliare i capelli con al collo un grande bavaglino colorato e sorride.

Attraverso le bancarelle con addosso un cappottino e una vaga sensazione di disagio. Disagio che non ho mai avuto passeggiando per il centro di Parigi, dove era tutto un incanto di ricercatezza e perfezione estetica, dove procedevo sicura e spedita seguendo le indicazioni della metropolitana.  Era in una città che non conoscevo, ma di cui conoscevo tutti i codici di comportamento pur senza conoscere la lingua. Ed eccomi invece persa e spaesata dall’altrove a pochi chilometri da casa mia.

Disagio per essere io ricca in mezzo a questa dignitosa povertà, triste per queste storie di Natali divisi e regali da mettere sull’autobus, tentata dall’assaggiare quello spiedino di carne.

Ma non è forse questo viaggiare? Uscire dalla propria comfort zone fatta di codici di comportamento, recensioni da consultare prima di decidere dove andare a mangiare, carte di credito per ogni evenienza, prenotazioni online, boarding pass già stampate.

Non lo so. Io non lo so se riuscirei a fare un viaggio senza tutte queste cose.

Nella bilancia tra la ricerca del piacere e la ricerca dell’altrove pesa sempre un po’ di più la ricerca del piacere. Non sarò mai Livingstone che si perde nelle ricerca del Grande Lago. Non sarò mai quella che parte sola con uno zaino e un blocchetto bianco per gli appunti. Sarò sempre quella che spulcia le recensioni prima di decidere, che vuole il ristorante buono, l’albergo bello, il letto con 4 cuscini.
Ma quello che spero è di riuscire sempre a tenere alta la consapevolezza. E lo sguardo puntato sull’altrove.

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