Dreamer Image Post

La gioia più grande

26 June 2016

“Essere madre è la gioia più grande”. Vero. Dicono. Ma non è una gioia che arriva tutta insieme, subito, all’improvviso, come quando trovi 50 euro nella tasca di una cappotto invernale. La gioia più grande ti scende lenta come le gocce di una flebo nel braccio. “Quando ti metteranno in braccio tua figlia di colpo dimenticherai tutti i dolori del parto”. Mica vero. La prima volta che mi hanno messo in braccio mia figlia la ferita del taglio cesareo mi faceva male, l’ago della flebo mi faceva male, le spalle mi facevano male e hanno continuato a farmi male pure mentre lei cominciava a esibire il suo miglior campionario di smorfie. I dolori del travaglio indotto con i farmaci me li ricordo tutti, e se li ricorda pure il mio corpo. I dolori del parto sono una di quelle cose che ti fanno dire “piccolina mia, tu resterai figlia unica”.

“La nascita di un figlio è sempre il giorno più bello della propria vita” – dicono. Non lo so, ho un po’ di remore a definire come il giorno più bello della mia vita quello in cui ho passato il pomeriggio a urlare chiedendo un antidolorifico. La gioia più grande comincia ad arrivare sul far della sera, quando tutte le visite vanno via, le luci si abbassano, l’antidolorifico fa effetto e ci siete solo tu, il papà e lei con i suoi 2 chili e 4 di manine lunghe e sfilate, gambine troppo magre, faccia da ufetto e  con gli occhi ancora blu. Caterina, come abbiamo cominciato a chiamarti da quando avevi 9 settimane e tutto ci chiedono: “Ma perché? come la nonna?”. La gioia più grande arriva quando dopo aver lottato con i ganci della carrozzina da attaccare ti portiamo a casa, fuori i finestrini dell’auto è una perfetta giornata di inizio estate, non troppo caldo, non troppo freddo, cielo blu “Guarda Caterina, questo è il mare, questo è il posto che imparerai a chiamare casa, laggiù c’è Capri”.

E pure una volta che sei a casa e ti sei chiusa la porta alle spalle la gioia più grande continua a contenere tante altre sfumature meno gioiose. L’ansia della prima notte: “Starà respirando?”. La paura: “E se la faccio cadere mentre la tengo in braccio?”. L’inadeguatezza: “Hai mangiato, ti ho cambiato, hai fatto il ruttino, perché piangi?”. La lacrima facile, gli ormoni sballati, “te l’ho appena messa! Non puoi aver già vomitato sulla tutina appena uscita dalla lavatrice!”. La gioia più grande a volta deve prima passare per sentimenti meno nobili.

 

Prendiamo l’allattamento. “Bisogna allattare esclusivamente al seno fino almeno al sesto mese”. Lo dice l’OMS, lo dicono tutte le ostetriche natur-nazy. E allora allattiamo, fosse altro perché è gratis è con i soldi che risparmio me ne posso comprare tutti vestiti per la mia nuova “fisicità” (no, i vestiti dell’estate scorsa non mi vanno più, maneggia a me che nella mia vita ho sempre e solo comprato abiti col punto vita stretto). Dicevamo l’allattamento. Non ho remore a dire che i primi giorni l’allattamento al seno mi ha fatto proprio schifo. Diciamoci la verità, non è divertente avere del liquido giallo e denso che ti cola dalle tette e lascia macchie gialle ovunque, comprese le tue preziose lenzuola di lino, essere costretta a cambiare due reggiseni al giorno (e lavarli), mettere le coppette assorbilatte (e arrivare quindi ad avere tre assorbenti addosso, una specie di contrapasso per i nove mesi passati senza?), permettere a tua mamma e a tua suocera di toccarti, palpeggiarti e giudicare la forma del tuo capezzolo, farti vedere dal tuo compagno mentre usi la tiralatte e sei sicura di assomigliare di più a una mucca che alla donna con cui lui usciva a cena fino a pochi mesi prima. Sentirsi il seno gonfio e dolente, la sensazione di bagnaticcio la notte, tutte le camicette che non si abbottonano più. I parenti fino al quarto grado che mentre ero ancora nel letto in preda ai “morsi uterini” e il catetere ancora infilato mi ripetevano continuamente “mi raccomando, attaccala subito”. Attaccala subito, io ci provavo, ma mentre intorno a me neo-mamme da poche ore sembravano Madonne rinascimentali io avevo solo un esserino tra le braccia che urlava come un’aquila e si dimenava perché aveva fame. E io in quel momento avrei solo voluto uno spritz e una sigaretta, altro che. E pensavo alle mamme che avevo visto a Report solo una settimana prima che si bevevano loro il latte artificiale dato dall’ospedale pur di non darlo al bebè e continuare a provare ad allattare. “Pazze” pensavo, mentre il piccolo gremilns la smetteva di urlare appena le infilavo la bottiglietta in bocca.  Poi le cose piano piano sono cominciate ad andare meglio, il latte è arrivato, lei ha preso forza, ho trovato i paracapezzoli giusti, la poltroncina col giusto appoggio, il cuscino da allattamento. Probabilmente ancora qualche settimana e sarò forse capace anche di allattarla in pubblico tirando fuori con disinvoltura le tette ai giardinetti, non so, ho i miei dubbi, ma intanto il sorrisino di soddisfazione che mi fa dopo i suoi trenta minuti di poppata è meglio di uno spritz e di una sigaretta. Decisamente meglio. Anche se tutto ciò non mi permette di negare il potere salvifico di una bottiglietta di latte artificiale da trangugiare tra le braccia del papà alle 4 di notte. E ora passami quella birra al limone, per piacere, è ormai estate e la birra fa latte, si sa!

La gioia più grande è rendersi conto che con un po’ di aiuto sono riuscita andare dal parrucchiere,  andare a fare colazione al bar, dormire, mangiare un pasto completo di tre portate, farmi la doccia e mettermi pure la crema corpo e truccarmi. “Goditela ora perché poi…” mi dicevano. Me la godo ora perché ora è ancora più bello mangiare la brioche al bar in due.

 

×