Di quella volta che sono andata a Gerusalemme e Betlemme

28 December 2018

Alla fine ci sono andata. La prima volta avevamo prenotato giovani e spensierati nel 2014, ma poi c’era stata una mezza guerra. La seconda avevo prenotato a 2017 ma poi c’erano stati i disordini e le proteste contro Trump e allora avevamo cambiato itinerario perché comunque avevamo un’infante con noi. La terza volta ho prenotato e siamo andati e mentre eravamo sulla via del ritorno in aeroporto sono aperti 400 razzi da Gaza verso Israele. Ma noi l’abbiamo saputo che già eravamo dall’altra parte del mare. 

Gerusalemme 

Ci sono tanti luoghi da vedere nel mondo. E poi c’è Gerusalemme, che racchiude il mondo in un unico luogo.  In poche centinaia di metri si passa dalla una moderna città occidentale con Zara e Mango, al suk arabo con i carretti che girano vendendo pane e uova, al quartiere ultraortodosso dove famiglie intere vestite in abiti tradizionali corrono continuamente chissà dove… E poi i turisti, i pellegrini, i viaggiatori, una folla enorme che io non ho mai visto, neanche a Capri a Ferragosto. Armeni con i fazzoletti colorati in testa, filippini con un copricapo a pon pon per riconoscersi nella folla, crocieristi con l’auricolare nelle orecchie… tutti in fila, tutti in corsa per un selfie lungo la via Dolorosa, tutti in fila per cercare di toccare un po’ di roccia sacra e portarsi a casa un briciolo di sacralità.

Sacralità che si sbriciola e scivola via tra chi ti spintona perché deve farsi un selfie sotto a una stazione delle Via Crucis, tra il custode che ti chiede la mazzetta per farti saltare la fila, tra le urla e gli spintoni lungo la strada che porta al Santo Sepolcro. Sacralità che poi rispunta prepotente nelle cappelle di “serie b”, quelle fuori dalle rotte dei tour organizzati, dove una suorina di chissà quale religione ti porge una candela con un sorriso, nella chiesa armena dove gruppo di monaci canta i vespri della sera prima di tornare nelle loro stanze segrete e inaccessibili, nelle strade che alle 7 del mattino già si cominciano a riempire di bimbetti con i riccioli davanti le orecchie che corrono alla sinagoga. 

Noi siamo qui solo per un weekend lungo in compagnia dei nonni. Non possiamo pretendere di capire niente, possiamo solo cercare di farlo. Avendo poco tempo e tanto da voler vedere abbiamo preso una guida per la giornata intera a Gerusalemme. È una ragazza giovane, carina, con un bell’accento romano, che vive qui da 12 anni. Ci guida per i vicoli tortuosi affollati da comitive da turisti, ci fa assaggiare l’hummus più delizioso che abbia mai provato, cerca di condensare millenni di storia in una chiacchierata e infine, quando arriviamo in una piazza larga e ci sediamo su una panchina al sole del pomeriggio, ci racconta che lei più che ebrea si definisce “sionista” e che “Israele” in quanto Stato per lei è un faro. È un’affermazione che io non posso condividere, ma allo stesso tempo sento di non avere alcuna base per contraddirla se non mettendomi al livello di un liceale con la kefia che fa sciopero il venerdì per solidarietà al popolo palestinese. E sono anche affascinata dall’idea di riuscire a credere così fortemente in uno stato, mentre per me l’Italia come Stato è un’idea sempre più vaga e remota 

Mentre torniamo nel nostro appartamento nel residence di lusso sta calando lo shabbat: tutti corrono a casa ad accendere le candele, a stare con le loro famiglie. L’ascensore dorata si ferma ad ogni piano, in modo da poter essere presa senza toccare i pulsanti, quando le porte si aprono sul corridoio del sesto piano seduta a terra sul pianerottolo c’è una bimba che gioca. 

Betlemme 

Pensavamo che andare da Gerusalemme a Betlemme fosse complicato, immaginavo file al check point, traffico e lunghe attese. Invece è semplicissimo, si potrebbe pure andare a piedi da Gerusalemme in meno di due ore. Noi prendiamo la macchina, 15 minuti e siamo al muro. Subito il solerte autista arabo ci indica dove parcheggiare per poi salire nel suo taxi e arrivare nel nostro albergo a una cifra sproporzionata ma pur sempre irrisoria per le nostre tasche. Accettiamo senza riserve, ha un seggiolino per bambini in macchina, che avrà visto tempi migliori, ma meglio di niente. Tempo tra il mettersi nel taxi, passare il check-point, arrivare in hotel: 3 minuti. Costo: 4 volte quanto avrebbe chiesto a uno del posto, ma su questo non mi arrabbio. Ci sono dei posti dove non puoi far finta di non essere un turista ed essere trattato come un locale. E i nostri 20 euro sicuramente possono fare la differenza per lui ma non per noi. 

L’hotel è la ragione principale per cui abbiamo deciso di dormire a Betlemme: è il Walled Off Hotel, l’hotel costruito da Bansky a ridosso del muro che separa Israele dai Territori Palestinesi. Tanto da definirsi “L’hotel con la peggior vista del mondo”. Sarà pure la peggiore del mondo, ma è unica. Mi emoziona talmente tanto che la sera non chiudo le tende.

Certo, l’hotel è quanto di meno baby friendly si possa immaginare: all’arrivo ti prendono la carta di credito e ti bloccano mille euro in caso tu rompa qualcosa. Poi ti danno un bel fascioletto con su elencate tutte le opere d’arte che sono in camera tua: sta a te controllare che tutto sia a posto e firmare assumendoti la responsabilità se si rompe un piattino commemorativo dell’incoronazione della Regina Elisabetta. L’hotel infatti, ad di là delle opere di Bansky spara un po’ ovunque, è in stile coloniale inglese, con tutti i ninnoli del caso messi nelle vetrinate e sui mobili. L’ideale per un rilassante soggiorno con una bambina di due anni. Ma riusciamo a uscirne a carta di credito intatta, non so come. 

Da lì organizzano tour guidati nel vicino campo dei rifugiati. Noi il campo dei rifugiati ce lo immaginiamo sempre come una tendopoli con l’acqua razionata e i caschi blu dell’Onu che distribuisco i pasti. In realtà, come in questo caso, più spesso si tratta di paesi veri e propri, fatti di case tirate su alla buona, mattoni a vista impalcature traballanti. Un po’ come se fosse un nostro quartiere di case abusive. In mezzo c’è un asilo nido con Winnie Pooh disegnato alle pareti, accanto una scuola elementare con le finestre murate in modo che non entrino i gas lacrimogeni. Una famiglia sta sgozzando una pecora direttamente sull’asfalto, la nuova pietra di Abramo, i bambini saltellano tra i rivoli di sangue.  

La guida ci racconta i (pochi) paesi dove possono andare, il viaggio per arrivare all’aeroporto in Giordania, le le procedure per avere un visto, il mondo chiuso da un muro pieno di murales. Penso a noi, che dall’Italia abbiamo fatto le valigie e viviamo in un altro stato senza bisogno di permessi, di visti. E che da un altro stato abbiamo potuto prendere un aereo per un weekend. Le signore sri-lankesi che fanno le pulizie da me mi guardano sempre stupefatte quando racconto che sono andata all’estero per un weekend. Per loro è impossibile. Visti, pratiche, timbri, bolli. 

E ancora una volta ho pensato quanto siamo stati fortunati a nascere dalla parte giusta del mondo. La parte che ti permette di vedere il mondo. 

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