Viaggio in Giappone-Osaka-Undicesimo e dodicesimo giorno

30 August 2009

Dopo funicolare, trenino, treno e metropolitana arriviamo a Umeda, stazione metropolitana di Osaka. Ho un trolley in mano, uno zaino sulle spalle, una borsa sotto braccio. Da sotto alla stazione non si riesce a vedere la luce del sole: saliamo una scala mobile e siamo in un centro commerciale, percorriamo un corridoio e siamo in una restaurant hall, giriamo l’angolo e siamo in un altra linea della metropolitana. Intorno milioni e milioni di persone come banchi di sardine che vanno avanti e indietro.  Le cartine hanno il nord rivolto verso sud. Ci mettiamo a capa sotto per provare a leggere. Exit, exit, segui il branco,segui il banco. Fuori. Aria afosa. Circa venticinque incroci davanti a noi. I vigili in guanti bianchi e spade laser mettono in scena un balletto di inchini arigato gozeimast surimasen e gomen nasai urlati da una parte all’altra prima di far attraversare lo sciame. Avete mai nuotato tra i banchi di pesce ? Sembra sempre che vai a sbatterci contro ma poi, per una strana legge dei fluidi, tutto scorre fluido. E il rumore. Uno si immagina il Giappone e i giapponesi come un popolo silenzioso. E invece: buttafuori fuori dai locali urlano shamisen shamisen, nei negozi i venditori urlano le promozioni in corso attraverso un megafono, jingle nei department store, jingle nelle ascensori, sigle della metropolitana. Le musiche assordanti delle onnipresenti sale di pachincko, una specie di flipper verticali per cui i giapponesi vanno evidetemente pazzi.  Nei treni invece tutti zitti, suoneria del cellulare abbassata. Tassativamente vietato parlare al telefono.  Nelle camere degli alberghi magicamente non si sente più niente. Arriviamo al nostro. Non so come. L’Hotel Kinki ha due ingressi, uno con un normale front-desk, l’altro con solo una finestra. Uno con l’insegna in inglese, un’altro con l’insegna in giapponese. Due ingressi paralleli per uno stesso mondo. Uno serve per gli occidentali in cerca di una stanza a prezzi modici al centro di Osaka, l’altra per i giapponesi in cerca di intimità. Certo, si va a puttante. La zona è circondata da girl’s bar, bar dove si entra semplicemente per parlare con una ragazza ( che non è una prostituta, ma in genere studentessa universitaria che così arrotonda) e cinema porno che in locandina espongono formose pornostar e coppie di gay in slip bianchi. Ma nei love hotel si va anche con la moglie, per sfuggire da appartamenti troppo piccoli, troppo affollati di nonni e nipoti. La stanza è come al solito semidouble, con bagno prefabbricato. C’è uno stesso rubinetto che può essere usato per doccia e lavandino, lo giri a sinistra e l’acqua scende per la doccetta, lo giri a destra ed ecco che scorre nel piccolo lavandino. Sul rotolo della carta igienica stanno le istruzioni su come usare il gabinetto.  Nelle stazioni infatti puoi scegliere tra le western toilette, bagni con il gabinetto come ce lo abbiamo noi corredato però da diversi tipi di bidet e musichette per coprire i rumori, e japanese toilette, un semplice buco a terra, con una sbarra a cui appenderti per facilitare il tutto.
Dopo tre ore di sonno pieno troviamo la forza per uscire e andare a vedere che si dice ad Osaka. Ad Osaka stanno le cicche di sigaretta a terra. E già questa è una differenza rilevante. Andiamo all’Ebisu Bridge, dove pare si possa ammirare un panorama alla Blade Runner. Sbarchiamo così alla stazione di Namba, ma sbagliamo lato di uscita e ci troviamo in una specie di Piazza Garibaldi di sera dove però puoi tranquillamente girare con una cartina in mano senza rischiare di ritrovarti il giorno dopo in un fosso tutto bagnato che ti manca un rene. Raggiungiamo il lato giusto e siamo nel quartiere di Dotombori. E’ vero, i giapponesi hanno fatto il protocollo di Kyoto, ma se spegnessero un po’ di insegne tra Tokyo e Osaka, risolverebbero una buona parte della crisi energetica globale. Dotombori è la festa dell’insegna luminosa, un quartiere dove vige imperante la legge della luminosità, un sogno epilettico. Non riusciamo a restarci, veniamo dalla quiete del Koya-san, siamo stanchi, io non sopporto più il gracchiante surimasen dei buttadentro. Ritorniamo dalle parti del nostro albergo. Per caso ci troviamo sulla via un ristorante indiano che sembra carino.  Non ne posso più di cibo giapponese e sapori agrodolci. Ho fame. Veniamo meno alle nostre ferree convinzioni di mangiare locale ed entriamo. Ci accoglie subito una ragazza con un sorriso vero e ci porta un menù in inglese. Ci spiega in inglese perfetto le varie portate e quando chiediamo una variazione del menù annuisce senza alcun problema. Saranno stati i problemi di comunicazione linguistica, ma i giapponesi, appena gli chiedi una variazione del menù, vanno nel pallone. In ogni caso, mangiamo a sazietà entrambi. Usciamo satolli. Ci ritorneremo la sera dopo, dopo una giornata in giro per Osaka e un piatto di udon a pranzo (della specie di tagliatelle)  che ci hanno tenuto in piedi per non più di due ore. Domani si ritorna a Tokyo e dopodomani in Italia.

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