Quel che resta del Giappone

3 September 2009

Sono le 6  24 e sono a letto sveglia da un jet-lag prepotente. Mi chiedo come ho fatto a svegliarmi per un anno a quest’ora. Ieri per festeggiare settembre sono tornata in ufficio, mi sono comprata una cipria nuova, ho mangiata una pizza e un crocchè. Tra un paio di ore si riprende sul serio a lavorare. A ricordarmi cosa facessi io di lavoro. Magari sabato si va un po’ al mare a riprendere un po’ di colore. Sono tutti tornati belli abbronzati e inchiattiti da buffet di villaggi e navi da crociere. Io sono tornata bianca bianca e magra magra.  Non che mi dispiccia, si intende. La settimana prossima se fa un po’ più fresco, vado pure in palestra. E costa resterà del Giappone, oltre agli album fotografici su Facebook e alle troppe poco ghingaglierie comprate?
Lost in translation: nel mondo globalizzato (intendo nei paesi industrializzati) credo che sia il posto dove maggiormente ti senti straniero e straniato. Persi nel sogno epilettico delle insegna a neon di Shibuya, dell’Ebisu Bridge di Osaka, dell’area fumatori fuori alla stazione di Shijnzuku, dove qua si fuma e là non si fuma, nella stessa aria, sotto lo stesso cielo.  Persi tra  kangii e irakana, attenti a riconoscere un’insegna dal puro segno grafico slegato dal suo significato. Persi a chiedersi perché noi eravamo arrivati all’alfabeto fonetico e loro al concettuale, e se il suono derivi dal concetto e vecchi ricordi dell’esame di linguistica. Convinti dell’impenetrabilità dei giapponesi se non si parla la loro lingua, per andare oltre ai sorrisi, agli inchini, agli infiniti ringraziamenti e saluti.
L’estetica giapponese: fuori alle sale di Pachinko, fuori alle librerie di manga, sulle locandine dei cinema soft-porno, l’immagine femminile è sempre la stessa: una preadolescente bionda con grandi e rotondi occhi azzurri e enormi seni tondi, il più delle volte vestita da scolaretta  o da bambolina.  Immagino che frustrazione che deve essere per le donne giapponesi vedere tali idealizzazione che presentano i loro tratti fisici esattamente opposti. D’altro lato, loro stesso sembrano inseguire questo modello. Intorno a Shibuya e a Harajuku si vedono continuamente ragazze vestite da bambole di porcellana, con parrucche di boccoli, gonnelline a parapalla e cestino di paglia in mano. E in tutti i megastore i negozi più affollati sono sempre dedicati alle cosette che loro definisco “Kawaii”, carine, cool, colorate. Hello Kitty  è il classico esempio di kawaii, ma ad insediare il suo dominio incostrato ci sono gli onnipresenti orsetti del cuore,  mio mini pony e  i popples. Hello Kitty impera ovunque. Non c’è tempio o monumento che non abbia il suo souvenir di Hello Kitty dedicato. Siamo andati a Nara a vedere il Buddha di bronzo alto 30 metri.  Nel tempio stesso c’era la bancarella che vendeva i ciondoli per il cellulare con Hello Kitty in braccio a Buddha. Come se da noi, dentro alla Capella Sistina, vendessero il quadretto di Dio che tocca il dito di Hello Kitty. Non so, questa cosa mi ha lasciato un po’ perplessa. Al di là di tale parentesi pare che il gusto femminile imperante viri immancabilmente sul rosa e lezioso: il cellulare è immancabilmente dedicato con brillantini e campanelli luccicosi, le unghie sono sempre iperdecorate, i tacchi sempre alti, il trucco sempre perfetto. Ho visto pareti intere dedicate a strani e vagamente medievali orpelli per allargare lo sguardo.
L’inquadramento: il giappone è un paese piacevolissimo in cui viaggiare. I treni sono sempre perfettamente puntali, le indicazione sempre chiare e precise, non c’è assolutamente pericolo di furti e scippi, nessun giapponese tenterà di imbrogliare, i prezzi sono sempre bene esposti. Il cibo può anche non piacere, ma si trovano ristoranti ogni dieci metri con le riproduzioni di plastica in vetrina e raramente spendi più di venti euro a testa per pranzo o cena.  Il prezzo medio è intorno ai 12 euro. L’acqua o il the sono sempre gratis. La birra è ottima. Se non sai cosa prendere, prendi gli spiedini di carne, sono buoni e senza il tipico retrogusto agrodolce di molti loro piatti e ti sostengono. Gli alberghi mediamente più economici che da noi ( 50 euro a notte in due)  ma sempre pulitissimi e dotati di tutto quello che ti può servire, compreso spazzolino da denti, mini-dentifricio e rasoio. Sempre compresa anche la yukata, la vestaglietta da indossare dopo la doccia e le ciabattine. Rimane però la sensazione che la variazione li mandi nel panico. Tipo. Volevo comprare una chiavetta usb a forma di cuore. C’era rossa, fucsia e rosa. La chiedo fucsia. Il commesso si scusa, dice che fucsia è finita, è passa al cliente successivo. Senza pensare che rossa o rosa potesse andarmi bene uguale. Oppure mai provare a chiedere una variazione del menù prestabilito nei locali: cioè tipo, se sta un menù con soba e verdure e un altro con nudon e carne, chiedere udon con verdure li manda nel panico.  Ho letto che molti hikikomori in effetti guariscono andando a vivere all’estero, in paesi dove non sempre l’autobus parte puntuale.  In giappone pensavo anche io di preferire la flessibilità, ma dove avere aspettato più di un’ora a Fiumicino il volo per Napol che decollerà un ora e un quarto dopo l’orario previsto, sinceramente non saprei.
Le mascherine: questa è una cosa che proprio non mi riesco a spiegare, la mania dei giapponesi per la mascherina anticontagio.  La indossa circa il 10% della popolazione. In ogni occasione.Ho visto gente, bambini, farsi 12 ore di volo senza togliersi la mascherina. Ho visto uomini grandi e grossi tenere su la mascherina sulla montagna sacra di Koya-san, tra boschi e conifere. Non so quanto avrei pagato per stare nella capa di quello.
Intanto si sono fatte le sette e mezza, mo’ quasi quasi mi faccio uno shampoo.

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