Granada-Milano (solo ritorno)

27 May 2010

 
Al risveglio l’Italia è odore di cipolle fritte che vengono dal ristorante italo-cinese specialità sudamericane che sta sotto il palazzo. Una gru enorme sta buttando giù un palazzo di fronte e i calcinacci finisco sulla piantina di basilico che il napoletano immigrato tiene sul davanzale. Il cielo annuncia pioggia e io non ho nessuna voglia di uscire. Ho Vanity Fair in italiano e una piccola biblioteca che è da un mese che non leggo un libro.

Ieri la pizza era buona, i camerieri parlavano in napoletano, ai tavoli attorno c’era tutta gente che parlava ininterrottamente di lavoro mentre mangiava la pizza con coltello e forchetta. Consulenze di 140mila euro, bilanci e vantaggi e svantaggi del bonus mensile anziché annuale.

Ordino un limoncello mentre il tavolo affianco ordina un decaffeinato e mi impongo di lottare contro la me stessa napoletana che considera milano il cesso e non vede l’ora di tornare al sole, al mare e all’impepata di cozze. Tanto sta piovendo da due mesi pure a Surriento. E il limoncello che mi servono è tale e quale. Anzi, sarà proprio lo stesso.

La prima cosa che mi è ha colpito dell’Italia è stata la quantità incredibile di macchine. Tantissime macchine che andavano avanti e indietro e suonavano un microsecondo prima che il semaforo diventasse verde. Non me ne ricordavo mica tante.

Mi sento un po’ come quando dal monastero buddista sulla montagna sacra di Koyasan sbarcammo alla stazione di Umeda-Osaka tra stormi telecomandati di giapponesi. Per fortuna c’è chi mi compra il biglietto alla macchinetta della metropolitana e mi trascina il trolley rosa mentre io sembro una signora di cinquanta anni dell’entroterra lucana che va a trovare per la prima volta il figlio.

Io sull’aero quando ho visto le cime innevate della Sierra Nevada che si allontanavano mi sono commossa solo un poco dentro. Il clima di terrore che solo un check-in ryan-air sa produrre tra controllo al grammo delle valige, borse da infilare negli zaini e zaini da stringere con le cinghie per farli entrare nei microscopici misuratori di bagagli a mano, mi avevano fiaccato. E il racconto della signora affianco sul matrimonio spagnolo del figlio quando le avevano fatto fare un velo di seimila euro lungo fino a terra era troppo avvincente.

Appena arrivata ero troppo frastornata e le macchine era troppe e capivo tutto quello che diceva la gente attorno a me e ho detto hola alla signora del bar.

E poi c’era qualcuno da rivedere, salutare e raccontare. Il magone mi è salito ora, in questo giovedì mattina che tutti lavorano in un posto che non è il mio e non è il nostro. E mi sento come quella piantina di basilico fuori al davanzale mentre fuori comincia a piovere.

(Pomeriggio, è uscito il sole, ho pranzato a sushi con un vecchio amico. Le foglie della piantina di basilico ora sono di un bel verde tenero. Se le odori profumano)

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