Post o Gall

12 May 2010

Siamo partiti in direzione ovest un martedì pomeriggio di insolito freddo di una primavera granadina di mattine gelide e mediodia assolati. Una Seat Ibiza bianca presa a noleggio, due zainetti e la mappa Michelin di tutte le strade della Espagna e Portugal.
Le carrettiere dell’Andalusia sono gratis e monotone, da Granada a Siviglia incontriamo solo enormi distese di olivi, da lontani si vede qualche paesino bianco come disegnato su un fianco di una montagna. Canal Fiesta Radio, la radio officiale de toda Andalusia ci tiene compagnia col sue canzoni che parlano immancabilmente di amore e calle a ritmo di flamenchino. Maciniamo i primi trecento chilometri. A Siviglia rotta verso nord, siamo diretti a Caceres, città medievale dell’Extramadura prima tappa del nostro viaggio nel viaggio. La terra si fa rossa e scompaiono i paesini bianchi per sopra le montagne. La densità abitativa dell’Extramadura è pari credo a una pecora per dieci chilometri quadrati. Il sole è ora alla nostra sinistra e diventa sempre più rosso e grande. Chilometri su chilometri tra la terra rossa, sono quasi le dieci di sera e il sole non tramonta mai. Alla fine scompare stremato dietro le corna di una delle tante silhoutte giganti di tori che fiancheggiano le strade della Spagna.
Caceres sembra essere una tranquilla cittadina umbra o della Toscana, con le mura medievali e le strade con i ciottoli. Solo che le stelle sono molto più luminose. Mangio un bel porco iberico e Alberto la prima tortilla del viaggio. Da allora mangerà esclusivamente tortilla di patete o omelette di queso a pranzo e a cena, sempre con l’immancabile accompagnamento di patatine fritte che non mancano mai in nessuna tavola spagnola. Alla fine del viaggio ha ormai assunto un color Simpson e per fortuna non abbiamo avuto modo di misurargli il colesterolo.
Il giorno dopo colazione con churros e cioccolato. Per chi non lo sapesse i churros sono delle specie di zeppole di San Giuseppe però lunghi, tipo tubi. Li vendono in un unico grande rotolo che ti tagliano a misura. In genere si prendono sempre insieme alla cioccolata calda e ce li azzuppi dentro.Avete mai azzoppato un zeppola nella cioccolata calda? Beh, il risultato è delizioso.
Riprendiamo la rotta verso ovest, puntando diritti verso il sole. Il panorama diventa man mano più chiaro, la terra da rossa si ricopre di verde. Senza un minimo di preavviso attraversiamo il confine. Subito accendiamo la radio per sentire un po’ di portoghese, ed eccolo. Non lo so, a me che non sono stata mai un patita delle canzoni brasiliani mi fa pensare subito a Tony Tammarro che canta “una sera con mio amico, ne mia casa de baiha…”
Ci fermiamo a prendere il primo sorso di Portogallo a Evora, piccolo e tranquillo paese che un tempo fu avamposto dei Romani che qui eressero un tempio a Diana. Non possiamo fare a meno di immaginarci le legioni dei Romani che dai Fori Imperiali si mettevano la via avanti ed arrivavano fino al Portogallo. Quanto tempo ci vorrà a fare a piedi da Roma al Portogallo? E i messaggeri che dalle legioni partivano per portare messaggi a Roma?
Non posso fare a meno di cominciare a notare che i portoghesi hanno tutti un colorito che va sul verdino.
Sensazione che accompagnerà un po’ tutto il viaggio. Ora non so se sono io che mi sono fatta condizionare da Alberto che continuava a sostenere che in Portogallo erano tutti verdi o è proprio così. Io comunque li vedevo tutti verdini.
Arriviamo a Lisbona nel tardo pomeriggio. Ovviamente ci toccano i tre quarti d’ora di sperdimento nel traffico di Lisbona per trovare l’albergo senza navigatore satellitare ma solo unendo mappe Michelin, Lonely Planet e segnali stradali. Vasco de Gama non aveva manco quelle, mi dico. Per fortuna a Lisbona si guida un po’ come a Napoli e quindi fare le inversioni a U in mezzo alla strada non è troppo un problema.
Lisbona non sembra molto cambiata da “Sostiene Pereia” i tram sono uguali, sferraglianti e con gli interni in legno, i cartelli stradali che indicano un attraversamento pedonale hanno disegnato sopra un omino col cappello.
Le persone per strada non portano il cappello però, e per strada ci sono molto meno bambini che a Granada dove le strade sono festosamente piene di bambine coi fiocchi e bambini in calzamaglia. Certo, il pensiero di farti queste salite e discese col passeggino non invoglia certo alla natalità. Le gioiellerie di Lisbona vendono tutte degli enormi cuori di Cristo intarsiati d’oro. Forse perché deve venire il papa e le vie sono piene di cartelli che inneggiano a “Papa Bento”.
A Lisbona facciamo quello che si deve fare a Lisbona. Prendiamo il tram, ci sediamo fuori al bar con la statua di Pessoa a prenderci la limonata, mangio il baccalà e andiamo a sentire il fado. Dopo una strofa di fado già sto piangendo.
Dopo due giorni dove non so quanto abbiamo speso di tram, pasteis di nada e cicchetti di porto scendiamo verso sud, direzione Algarve. Più che del sole e del mare siamo in cerca di dirupi e scogliere affacciate ad ovest. Le troviamo a Capo Saint Vincent, l’estrema punta ovest del Portogallo dove avanti ci sono solo mare e america. Un faro sullo scogliera, l’ultimo pezzo d’Europa che i naviganti vedevano prima di arrivare chissà dove.
Il sole non ci benedice, ci godiamo due bottiglie al giorno di vino portoghese, altri cicchetti di porto ed epiche mangiate di mariscos (frutti di mare) e il delizioso agriturismo sperso nelle campagne con un cielo stellato di notte che mi ricorda certe notti d’agosto nell’alto cilento.
Con una certa saudade la domenica ripassiamo la frontiera, radio fiesta radio che subito ci accoglie in Andalusia mi fa capire subito quando diverso sia stato l’apporto dei portoghesi e degli spagnoli alla letteratura e all’arte occidentale. Secondo me i portoghesi si considerano di gran lunga superiori agli spagnoli. E forse, secondo me, tengono pure ragione.

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