Il coraggio dell’ottimismo e dell’inquetudine

3 April 2011

Lasciamo stare per un attimo diete e singletudini (perché in tutto ciò stiamo ai primi d’aprile e al contrario di ogni previsione io peso ancora 59 chili e non sono ancora fidanzata. E ciò mi irrita anziché no. Dovrò pagarmi io le vacanze estive? Credo che sia contro il mio codice etico e morale).
In ogni caso, siamo seri, oggi si parla di precarietà.

Un anno fa, di questi tempi, sbarcavo in una Granada assolata con un trolley rosa e un giubbino di pelle troppo leggero per quando scendeva la sera e faceva freddo. A casa avevo lasciato la firma in calce su una lettera di dimissioni da un contratto a tempo indeterminato. Il conto in banca non arrivava a mille euro. Davanti solo il “poi si vede”. L’ho potuto fare perché alle spalle ho una famiglia che in qualunque parte sperduta del mondo mi trovi sarebbe sempre pronta a mandarmi un money transfer e una stanza grande e color pesca sempre pronta a casa. L’ho potuto fare perché al mio fianco avevo un fidanzato che se avevo freddo e volevo comprarmi una felpetta avevo la felpetta. E tutto il bene possibile del mondo e la fritturina di pesce e il tinto de verano e tutto quello che poteva farmi sorridere e anche di più. Ero e sono circondata da benessere, ma non tanto di più di una qualsiasi ragazza nata dalla parte giusta del mondo.

L’ho potuto fare soprattutto perché ho avuto il coraggio. Il coraggio dell’inquietudine e dell’ottimismo. Quel coraggio che non mi fa mai dubitare che tutto andrà nel migliore dei modi possibili. Basta che io sorrida e sia convinta di meritarmi quello che di buono e bello posso avere.

Un anno dopo eccoci qua. “Primavera non bussa, lei entra sicura”. Ed esplode tra Punta Campanella e Capri, tra il vino bianco di un tavolo al sole e il gelato del giovedì pomeriggio. Io mi metto gli occhiali da sole e faccio la faccia pensierosa per farmi fare le foto ma poi c’è sempre qualcuno che mi fa ridere e allora non fa niente, rido e sono più belle le foto dove rido.

Ho un lavoro che qualsiasi sindacalista definirebbe precario, ma io non mi sono mai sentita tanto stabile e indeterminata. Ho una casa che è ben più precaria di me, lei scade a Pasqua, perché dopo scatta il fitto turistico e io dovrò dire addio alle sere in cui me ne vado camminando per i vicoletti di Anacapri e le stelle sono vicinissime come non lo sono mai sulla terraferma. Tornerò a fare avanti e indietro tra pensionati britannici e giapponesi incolonnati. Ma andrà bene così. Vedrò il tramonto dall’aliscafo e ringrazierò del mare.

E allora: la precarietà è uno stato mentale o contrattuale? O sono io ad essere in situazione talmente atipica (in positivo) che non posso proprio parlare?

Perché effettivamente io ho un po’ di remore a parlarne. Da un lato a chi non ha mai conosciuto uffici con le pareti divisorie in plastica dove quando passava il capo scendeva la nebbia del terrore e dove ti si bloccava l’accesso a msn e la mattina alle 9 meno 5 c’era la fila per le ascensori.. D’altra a chi ancora si va prendere il caffè al Bar Franco, accanto all’isola G1 del Centro Direzionale. Mi sembra quasi un atto di spocchia, di ubris dire che io il caffè me lo prendo in Piazzetta e nelle pause pranzo che voglio stare da sola leggo Vanity Fair ai Giardini di Augusto e non al tavolino del Mc Donald dell’Isola E1.

(c’era una frase, in Jack Frusciante è uscito dal gruppo, mi pare che fosse presa da una canzone dei Beatles, in cui si diceva che bisogna essere molto cauti con chi è felice…)

Da un punto di vista geologico anche la bellezza dei Faraglioni è precaria.

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