Un giorno a Parigi

3 December 2012

Parigi Parigi. Che dire di Parigi? Prima di tutto che non c’ero mai stata. “Come non sei mai stata a Parigi?” – mi facevano tutti – “Tu sei stata ovunque!” Eh sì, ma che volete farci,  non è mai capitato, alla scuola superiori ci hanno portato in gita a Firenze, manco in Grecia, forse eravamo una classe cattiva. Sicuro eravamo cattivi. O vittime di una spending review precoce. E nessuno dei miei 32 fidanzati mi hai mai portato a Parigi. In genere erano tipi da Amsterdam, più che da Parigi. E io sono sempre stata una tipa che si mette nelle orecchie per andare in posti tipo l’Islanda o il Giappone. Mai stata una di quelle con la fissa delle capitali da visitare piantando bandierine. E quindi non mi sono mai fatta la foto sotto la torre Eiffel. Con nessuno.

In ogni caso lo Svedese ha deciso che era uno scandalo che io a 32 anni non fossi mai stata a Parigi e quindi ci siamo dati appuntamento di venerdì sera in una stanza d’albergo a Parigi

Per arrivarci prendo un autobus dalla periferia lontana, da dove atterrano le lowcost, e una certo punto sento una mamma che dice al figlio: “Guarda a mamma, la Torre Eiffel, quello è il simbolo di Parigi”. Mi giro, ed eccola, la Torre che lancia luccichi che arrivano fino alla periferia.

Per arrivarci prendo due metropolitane con le ragazze carine coi cappottini rossi e le facce un po’ stanche e un po’ contente di chi torna dal lavoro e però è venerdì sera e allora si mettono il rossetto specchiandosi nei finestrini.

La stanza d’albergo è all’angolo del palazzo e ha le finestre grandi e alte affacciate sul boulevard. Una ringhiera d’ottone fa da parapetto. Le auto si incolonnano, appoggio il naso sul vetro, il vetro si appanna, “E così siamo a Parigi”.

La stanza è calda e piccola, la misura giusta per il pensiero di Parigi. La mattina la luce entra dolce e l’odore di croissant sale dalle fessure del pavimento scricchiolante.

Fuori l’aria ti gela il naso e le punta delle dita. Fuori alla metropolitana ecco la Senna e Notre Dame e il Louvre. E’ tutto maestoso. Enorme e bellissimo. Regale. Lady Oscar e i Tre Moschettieri e tutti i romanzi. E poi basta che giri l’angolo e ci sono le stradine con i negozietti, i fruttivendoli e i banchetti che vendono le ostriche.  La grandezza della metropoli, l’atmosfera del borgo. Sarà questa la formula per cui Parigi è Parigi? Chissà.

Intanto la giornata scorre veloce, troppo veloce tra grandi magazzini scintillanti, cioccolate calde e un pranzo in compagnia in posto allegro e vociante di cucina casalinga e puré morbidi di burro.

La sera eccoci a cena in un posto dove ti immagini Verlaine e Rimbaud spendersi gli ultimi spiccioli in una brocca di vino. Sul tavolino stretto abbiamo una brocchetta vino rosso e un piatto di guance di maiale. Che sono molte buone le guance di maiale. Nel menù c’era un’ampia scelta di vari tipi di teste di animali vari.

Lo Svedese ogni tanto si affaccia e dice “ma ti rendi conto che alle 8 di sera ci sono ancora i negozi aperti?”. Questa però non è una cosa che a me colpisce molto, a dire il vero.

Dopo cena sfidiamo l’aria fredda e la pioggerella leggera e corriamo verso il centro, per una foto davanti all’Arco di Trionfo, una passeggiata sugli Champ Elysèes e un giro sulla ruota panoramica. E una foto con la telecamera frontale con l’iPhone mentre ci diamo un bacio con la Torre Eiffel sullo sfondo.

Il giorno dopo è già ora di salutare Parigi. Lungo il viale che porta all’autobus, nel freddo e nel silenzio della domenica mattina, un bambino con un baschetto in testa sfreccia su un monopattino. Chissà dove andava.

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