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Arrivando a Fez

20 August 2013

L’aereo Ryanair che da Roma Ciampino ti porta diretto a Fez per meno di cento euro è affollato di famiglie marocchine che probabilmente stanno tornando per festeggiare con i loro cari la fine del Ramadan. I bambini, tanti bambini, urlano, corrono, piangono e ridono. I genitori non fanno una piega. Quando dal finestrino si cominciano a vedere distese di terra brulla una bambina comincia a esaultare “Siamo in Marocco, siamo in Marocco, la nostra terra! Grazie Allah!” .

Scendiamo dall’aereo con i recettori della pelle tesi a percepire una temperatura da forno, e invece troviamo un piacevole tepore e un vento gentile. Il controllo passaporti è rapido ed ecco il nostro autista, impaziente di portarci nel riad e assai seccato perché il sole sta tramontando ed è l’ultimo giorno di Ramadan. Deve correre a casa a mangiare.

Il fuoristrada corre ignorando qualsiasi regola del codice stradale mentre dal finestrino scorrono baracche, polli razzolanti per strada, bambini scalzi e donne velate.

Per la prima volta mi rendo conto di essere davvero in un posto “diverso”, diverso e povero. Non ho viaggiato poco, non pochissimo almeno, sono stata in tutti i paesi europei, in Giappone e negli Stati Uniti, ma qui mi rendo conto che non sono mai stata in un posto che non risponda ai codici classici della nostra civiltà occidentale. E’ davvero un posto “altro”.

Da subito provo una sensazione che mi accompagnerà per tutto il resto del viaggio: quella di essere una turista della “democrazia” che con i suoi occhiali da sole costosi spia il buon selvaggio ben riparata dai vetri del fuoristrada, ben attenta a spalmare di Amuchina il bordo del bicchiere prima di bere.

Inshallah, arriviamo a destinazione dove ci accoglie un neo-colonista francese gestore del riad.


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Il riad è una tipica casa marocchina composta da un cortile interno con giardino e al centro una fontana o una piccola piscina, salotti al primo piano aperti sul giardino interno, camere da letto ai piani superiori e una terrazza all’ultimo piano. Da fuori i riad sono simili in tutto e per tutto alle altre case, anche quelle più povere, perché dall’esterno non si noti la differenza e nessuno provi invidia passandoci davanti. Appena si apre la porta l’ingresso è cieco, con un muro davanti. Chi arriva non deve poter vedere subito la casa e le donne all’interno devono avere il tempo di velarsi per poter accogliere dignitosamente il visitatore.

Ci servono la cena sul terrazzo, il servizio è impeccabile come avremo sempre modo di notare: il cameriere solleva una ad una le carote per disporle nel piatto a raggiera perfetta, sposta i bicchieri di pochi millimetri sulla tovaglia per allinearli secondo un suo preciso schema mentale.

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Ad un certo punto nell’aria calda si leva il canto del muezzin “Allah Akbar”, altre voci si sollevano dall’alto dei cento minareti di Fez creando un coro mistico e confuso. Ci zittiamo e posiamo la forchetta sul piatto e volgiamo lo sguardo verso le vette dei minareti. Stanno pregando anche per noi. E in quell’attimo, anche se non ce ne rendiamo conto, anche il nostro cuore sta pregando.

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