Le luci nelle case degli altri

29 August 2013

In certe sere di un inverno svedese più di tutto mi piaceva girare in auto tra i quartieri di Stoccolma.  A volte passavamo per i quartieri dei ricchi, intere isole di ville con le torrette affacciate sul Mar Baltico, altre sere ci spingevamo fino alla periferia estrema, con le scritte in arabo, le donne velate, che potresti essere al Cairo se non fosse per la neve sui marciapiedi.  Il più delle volte restavamo in centro, girando tra i palazzi della buona borghesia, della nuova classe media emergente, ex quartieri operai ora radical-chic.
Dai finestrini della Volvo mi piaceva guardare le luci nelle case degli altri e immaginare le loro intime felicità in salotti dalla luce fioca. Ogni finestra, in quei lunghi mesi di buio, aveva una lampada o un candela accesa dietro i vetri. Luci nel buio, il buio di un inverno scandinavo, il buio delle strade, il buio delle case dove accendere troppe luci è volgare.

Quando arrivai in quel appartamento affacciato sul lago nessuna luce c’era dietro i vetri ad illuminare il buio. Le finestre erano occhi spenti.

Un sabato pomeriggio mi feci portare all’Ikea, diritti al reparto illuminazione. Volevo anche io una luce da accendere dietro i vetri, da guardare da lontano tornando a casa la sera. Ne scegliemmo una fatta di tanti piccoli fili di cristallo che tintinnavano quando si lasciava la finestra aperta. Lui la montò scegliendo con cura una lampadina dalla luce calda. Però non voleva mai lasciarla accesa quando uscivamo. Non si lasciano le luci accese senza motivo. Punto. Quando tornavamo a casa, dopo i nostri giri a guardare le luci nelle case degli altri, le nostre finestre erano buie, buie e spente come un cinema di periferia abbandonato.

Io le sere che ero da sola la lasciavo sempre accesa quella luce dietro la finestra sul lago. A volte uscivo di casa a guardare gli impercettibili movimenti dei lastroni di  ghiaccio, affacciata dal ponte che porta a Gamla Stan. Affacciata a prendere freddo e vento per svegliarmi dal torpore di quella casa troppo calda e silenziosa. Poi mi giravo e guardavo la luce, pensavo “Chissà come devono essere felici in quella casa affacciata sul lago”.  Ma in realtà quella casa era vuota. E io giocavo con me stessa a inventarmi felicità.

Poi quell’inverno è passato e il ghiaccio sul Malaren si è sciolto sotto il sole di maggio. Un’ inutile estate è passata (nonostante tutto). Ora è quasi settembre, le notti lassù a Stoccolma già si saranno fatte più lunghe mangiandosi la sera,  i giorni si riposano sfiniti da un estate di interminabili tramonti.

Chissà se ogni tanto lui accenderà quella luce e chissà se qualcuno, passando sul ponte che va a Gamla Stan, alzerà lo sguardo e penserà “chissà come sono felici in quella casa”.

Io qua nel Sud nel mondo mi riempio le giornate e i minuti di mare e sole. Questo sole che è ancora troppo dolorosamente luminoso. Passeggio in riva al mare, un anziano venditore ambulante passa con un megafono con cocco bello cocco fresco registrato da una voce più giovane della sua, un bambino mangia un’arancina più grande della sua testa e , chissà perché, mi viene in mente quella lampada che pende dietro i vetri.

Il pensiero di una luce nel buio artico, nel bel mezzo dello splendore mediterraneo.

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