15 September 2013
Oggi Napoli sembrava bellissima. Forse lo era, non lo so, bella non è un aggettivo che collego facilmente a questa città. Abbiamo passeggiato per il centro storico e c’erano operai che lavoravano a negozi che avrebbero aperto a breve, tanta gente per strada vestita con i soliti improbabili colori e a me è venuta voglia di mangiare un gelato prima di pranzo, come i bambini (e l’ho mangiato perché per questo è bello non essere più bambini).
Siamo scesi fino al lungomare liberato e per la strada abbiamo trovato 4 spose che si facevano le foto. I mariti avevano abiti lucidi dalle spalle troppo larghe, le spose erano tante piccole bomboniere con i boccoli fatti stretti e il velo di cattiva qualità che si sporcava tra i ciottoli e i piccioni. Si facevano le foto con gli occhiali da sole e io pensavo alle loro vite dopo questa giornata (c’è in se qualcosa di terribile nel definire il matrimonio “il giorno più bello della vita”. Che vuol dire, che di tutti gli altri che verranno nessuno sarà all’altezza?). Ho lasciato che questi pensieri si disperdessero tra le barche della scuola di vela e ci siamo seduti a una delle trattorie del Borgo Marinaro. Sapete, una di quelle coi tavolini con le tovaglie di plastica e puoi scegliere se lo spaghetto con le vongole lo vuoi in bianco o col pomodorino. Il menù altro non prevede. Al tavolo accanto si sono sedute 2 coppie di inglesi carichi di sacchetti di scarpe. Guardavano il Vesuvio e poi il mare e poi i bambini che giocavano a pallone e io un po’ li ho invidiati, perché anche io avrei voluto vedere tutto questo con i loro occhi. Invece mi sono limitata a sospirare “però dai, è bello qua”, mi sono bevuta un bicchiere di vino e il mare era calmo come il lago.
Dopo pranzo abbiamo passeggiato lungo il lungomare e tutti erano felici e Capri brillava perfetta e azzurra oltre il golfo. Anche il Veusvio sembrava benigno, pronto a perdonare tutto e tutti con un’esplosione pliniana. Erano tutti così felici che ci è venuto voglia di affittare un risciò e abbiamo fatto su e giù suonando il clacson e facendo a gara coi ragazzini. A Mergellina c’erano delle persone che si facevano il bagno e l’acqua sembrava quasi pulita, e quasi veniva anche a te voglia di farti un bagno. Ho pensato che forse in questa città ci avrei anche potuto vivere. Mica era così brutta.
Siamo risalti per Piazza Vittoria e io ho snobbato le vetrine di Via Calabritto “A Via Camerelle ce ne sono di più” e poi ho invidiato le coppie che sceglievano insieme le lenzuola Frette a Via dei Mille e poi siamo arrivati al Pan e io ho detto “Entriamo, che non ci sono mai andata”.
Al piano terra c’era una brutta mostra di vignette di Massimo Troisi. Il custode ci indica l’ascensore con cui salire al primo piano, dove sono le mostre. Sulla porta dell’ascensore è scritto “Vietato l’uso”. Saliamo e c’è un unica stanza adibita con un’unica mostra fotografica, anche abbastanza mediocre. Mi faccio un giro per le stanze intorno. Sono tutte vuote. Vuote e buie. I balconi hanno le imposte accostate e i cartelli “Vietato aprire”, “Vietato uscire sulla terrazza”. Il rumore dei miei tacchi risuona nel nulla. Per terra qualche cicca di sigaretta, pezzetti di schotch, polvere e residui di lavori in corso. Sulle pareti bianche ormai sporche restano solo i cartelli con i numeri delle sale. Il palazzo delle Arti. “Andiamo via, mi mette tristezza questo posto”.
Al piano terra noto che negli angoli sono appoggiati degli espositori su una mostra fotografica di Lou Reed. Mi sono ricordata che io ci sono andata all’inaugurazione di questa mostra, c’era Lou Reed che si fotografava le sue opere esposte e Bassolino che gli trotterellava dietro. Lavoravo ancora al giornale. E infatti anche il cartello porta la data “2006”. Sette anni fa questo posto sembrava uno dei simboli della rinascita napoletana, un luogo del bello e del moderno. Ed eccola qua. Sette anni dopo con le sale vuote come reduci da un bombardamento. Una promessa incompiuta. Come forse è tutta questa città. Ormai da secoli.