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Di quella volta che andai in Israele e Giordania

8 January 2018

Tel Aviv

La prima volta che ho sentito parlare di Tel Aviv è a qualche TG1 degli anni ‘80. Roba di razzi da Gaza, missili terra-aria e fatti così. Niente di grave ma nel mio immaginario era più o meno vicino a Baghdad nel 1990 dove stava Lilli Gruber con lo chador in testa.

La prima volta che sono stata a Tel Aviv è stato qualche giorno dopo Natale, in una giornata di cielo grigio e caldo inverno mediterraneo.  Mica ci volevo andare a Tel Aviv. Io volevo andare a Gerusalemme e a Betlemme, ma poi Trump, i disordini, gli inviti alla cautela della Farnesina, gli inviati di Sky News che parlano da Betlemme col caschetto in testa e va beh, si cambia programma. Mica posso portare una bimba di 18 mesi dove ci sono i giornalisti col caschetto in testa… andiamo a Tel Aviv che è tranquilla e ci sta un bel lungomare. Cioè tale e quale a Limassol. Cioè tale e quale a Castellammare di Stabia.

E io di lungomari ne ho abbastanza. Poi va beh, il lungomare di Tel Aviv è bellissimo: i campi da beach volley dove la sera a dicembre si gioca ancora, le piscine, i parchi gioco chiusi e recintati con le sedie dei bar tutto attorno così tu ti siedi tranquilla a bere il caffè e i pargoli giocano. E poi va beh, c’è Jaffa con i vicoli, i falafel e tutti i localini hipster con le lucine. Ok, tutto bello, ma nessun altrove. Una qualsiasi città europea dove ti vai a fare il city break con la EasyJet e ti fermi a cena nel localino post-industriale con il dolce servito nel barattolo. E allora se non si fa a Gerusalemme andiamo a Petra…

Petra

E qui l’altrove si incontra subito al confine: primo controllo alla macchina e poi l’autista ti lascia alla frontiera. Lui non può entrare, ne troveremo un altro al di là della frontiera. Controllo passaporti 1, controllo passaporti 2, controllo passaporti 3. Paga per uscire da Israele. Dopo ti mettono in un pullman: ci sono due autobus distinti: uno per noi turisti della democrazia, un altro per i palestinesi. Noi possiamo caricare i nostri bagagli sull’autobus, i palestinesi no, le loro valige viaggiano su un carrello a parte. Gli israeliani invece per questo confine non possono passare. Attraversiamo la buffer zone sopra il fiume Giordano, paga il pullman, paga i bagagli e arriviamo alla dogana giordana. I nostri passaporti sono in mano ai poliziotti, le persone si accalcano agli sportelli senza alcun ordine. Un’altra oretta persa a far cose non si sa, paga il visto e siamo fuori. Fuori è subito la polvere e il color deserto che ci si aspetta dal Medio Oriente. Prendiamo un caffè a una specie di baracca, dentro ci mettono dei semi di cardamomo, è buonissimo. Prima tappa il Monte Nebo che è un monte che ha qualcosa a che fare con Mosè ma non mi ricordo bene perché ero troppo stordita, poi giù a Madaba che è un posto famoso perché c’è una chiesa con un mosaico con una mappa della Terra Santa. E resterà famoso nella mia memoria perché li ho lasciato un borsello con tutto il trucco e le lenti a contatto. Niente di grave, erano tutte versioni mignon da viaggio, ma non è stato piacevole proseguire il viaggio con la stessa faccia di quando sono sola e lavoro da casa stravaccata sul divano. Mi ci mancava solo il pantalone a quadretti e gli stivaletti di pelo. Ma che vuoi farci. Anche questo è uscire fuori dalla propria comfort zone.

Tre ore di guida nel deserto e l’autista che ci racconta la storia di tutti i profeti di Israele da Abramo in giù ed arriviamo a Petra sul far della sera. L’hotel sembra bello, poi ti metti nel letto e senti tutte le molle del materasso, una a una. Il wi-fi non funziona in camera, niente puntata su Netflix. Ma tan’e, è solo una notte.

Di buon mattino siamo davanti all’ingresso di Petra, con Caterina in spalla. La magia la senti subito dai primi passi nel canyon, da quelle arenarie dalle sfumature colorate e le sculture che escono a sorpresa da dentro la roccia. Anche se attorno a te ci sono altre centinaia di turisti, bambini che vogliono venderti di tutto e asinari che ti vogliono portare su, non puoi fare a meno di sentirti Indiana Jones mentre giri l’angolo e ti trovi davanti al Tesoro. Andiamo avanti e lasciamo la strada principale per inerpicarci (Caterina in spalla) lungo un sentiero che si perde su per le montagne. Gradini e gradini fin quando gli asinelli giù sembrano formiche, e poi un sentiero che si snoda tra stanze grotte decorate, tombe di soldati romani, orti strappati alla roccia dai beduini e bambini poco più grandi di Caterina che portano le pecore a pascolo. Ogni tanto qualche gruppetto di turisti di cui uno esclama “Li vedi gli stranieri? Lei con la gonnellina e lui che porta in braccio la bimba, mica come i papà italiani!”.  Sgambettando sgambettando ritorniamo sul percorso principale dove non restituiamo e ci facciamo caricare da due asinelli per tornare indietro. Impolverati e sudati ci rimettiamo in auto per raggiungere la frontiera sud con Israele prima che faccia buio.

Anche in questo coso l’autista ci lascia alla dogana. Ed eccoci subito di nuovo a far questioni con i poliziotti giordani che vogliano farci pagare di nuovo il visto e per lo più esclusivamente in dollari giordani che non abbiamo più, un’oretta di storie, loro che vogliono che prendiamo un taxi per andare a prelevare in città, duecento canzoncine su YouTube, passaporti spersi tra uffici fumosi e riusciamo finalmente a uscire (senza pagare) per attraversare a piedi il no-where di filo spinato e raggiungere la frontiera israeliana. Una mezz’ora di fila. 12 controlli passaporto e siamo fuori anche da qui. Un taxi al volo e via all’hotel a Eilat.

Eilat

Conoscete una sensazione più bella di quella di arrivare stanchi e sporchi in uno di quei mega-hotel tutti profumati e impersonali? Non dover dialogare con nessuno più del necessario, farsi dare la tesserina, infilarsi in ascensore, aprire la porta e subito spogliarsi per un bagno che sarà sicuramente caldo,  pulito e profumato con tutte le amenities compresi i cotton-fioc. Ecco il nostro arrivo. Eilat che è come Rimini solo con le scritte in ebraico e il mare più bello. Siamo sul Mar Rosso e qui ci vengono in vacanza tutti gli arabi israeliani che hanno troppi problemi di frontiera per andare altrove. Tutti serviti e riveriti da personale ebreo che la notte di sabato fa andare le ascensori su e giù fermandosi a ogni  piano in modo che lo Shabbat venga rispettato e i pulsanti non vengono sfiorati. Ad Eilat non c’è granché da fare se non passeggiare sul (solito) lungomare, stare in spiaggia, andare a vedere i delfini nel reef e gli squali all’acquario. E mangiare hamburger. Cioè tutto quello che una bambina di 18 mesi adora fare.  Perfetto per due giorni. Al terzo probabilmente avresti voglia di saltare in groppa a Delfino Curioso e fuggire, e infatti noi al terzo giorno siamo andati via.

Masada e il Mar Morto

Sulla strada di ritorno per Tel Aviv ci fermiamo a Masada e sul Mar Morto. Masada è l’ultimo avamposto dove i giudei si rifugiano per resistere all’invasione romana. Sta su una collina in mezzo al deserto dove oggi si sale con la funicolare, ma i giovani militari israeliani salgono a piedi in una sorta di pellegrinaggio. Sopra ci sono i resti di questa città che per 25 anni resistette all’assedio, ma la cosa che mi farà ricordare di Masada è la famiglia di 20/25 americani con le felpe tutte uguali  “Zack’s Bar Mitzvah Israeli Tour”.

Al Mar Morto ci arriviamo che è ormai pomeriggio, il cielo è grigio, fa freschetto e  il mare che è un lago è agitato. Ma che fai, non ti fai il bagno nel Mar Morto per vedere se stai a galla leggendo il giornale? Certo che no! Mi cambio ricordandomi che mi sono tuffato nel ghiaccio a -20 e vado. Il peggio è attraversare la spiaggia e la fanghiglia con solo l’asciugamano mentre tutti i meno coraggiosi hanno ancora su il giubbotto. L’acqua però è quasi tiepida, quasi piacevole. Meno piacevoli peró sono le onde di acqua salata che ti arrivano addosso e ti fanno bruciare le labbra e corrodere gli occhiali. A galla come nelle foto non ci si riesce a stare per via delle onde, si fa solo più fatica a nuotare, ma va beh, ci ho provato. Un’esperienza inebriante? No. Ma se non l’avessi fatto me ne sarei pentita.

 Ovunque e in nessun luogo

Avete presente quella sensazione quando arrivata stanchi e sporchi in un mega-hotel di quelli business tutti profumati e impersonali?

Eccoci al Crowne Plaza di Tel Aviv per la nostra ultima notte israeliana.

Che poi sarà solo un’altra notte in un altro non luogo del mondo visto che ceniamo al centro commerciale e dormiamo al 15° piano di un grattacielo con vista su altri grattacieli e sul traffico del centro in una stanza arredata come centinaia se non miglia di altre stanze nel mondo. Ma dietro i vetri mi incanto a guardare lo scorrere lento del traffico e il letto è il più comodo in cui abbia mai dormito

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