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Quel che resta di questa estate

29 August 2019

Le brutte notizie arrivano sempre per telefono.

La prima: sono a Rimini a un convegno, di quelli con l’aperitivo in spiaggia, la cena con il pesce crudo e le bollicine rosè, l’albergo con la SPA. In pratica la mia breve vacanza semestrale adults only. 
“C’è una brutta notizia – mi dice mia mamma al telefono – C’è una macchia sulla TAC che ha fatto tuo padre”. Io sono un’ottimista, non mi preoccupo più di tanto. Ordino una Pina-Colada, ma il giorno dopo tornerò di corsa a casa, Caterina ha 39 di febbre. E siamo ancora in quel momento in cui la febbre di una bimba è più preoccupante di una macchia su una radiografia.

La seconda. Una Settimana dopo. Sono a casa un sabato sera. Caterina sul divano dorme il meraviglioso sonno dei bambini dopo una giornata di mare. Si è addormentata nel passeggino mentre tornavamo e io mi sono fermata al bar in piazza a fare un aperitivo da sola. Ero un po’ in ansia, mio padre aveva appuntamento dal medico alle 8 di sera, ma io sono un’ottimista. Mi bevo il mio Campari Spritz e penso che stasera gli diranno che non c’è niente di cui preoccuparsi. Mi preoccupo io quando alle nove nessuno ancora mi fa sapere niente. Alle 10 mia mamma mi dice: “Ci sono brutte notizie, tuo padre quasi sicuramente ha un tumore al polmone”.

La terza. Due settimane dopo. Sono a una festa di compleanno in spiaggia, è pomeriggio tardi. Caterina nuota nell’acqua bassa tra lo scintillio dorato delle onde. Mi bevo una birretta e non mollo mai il telefono. Sono preoccupata, mia padre è in ospedale da dieci giorni. Tac, Pet, Biopsia. Oggi dovrebbero dare i primi risultati. “E’ grave – mi dice mia mamma – ha già metastasi ovunque, I medici hanno detto massimo un anno”.

La quarta. Solo un mese dopo. Sono a una festa di compleanno in un giardino, il cielo è rosa dei colori della sera. Sono uscita di casa dopo tre giorni passati vicino a lui a letto, ormai quasi incosciente. E’ tornato mio fratello, mi sento più tranquilla. Ci tenevo a portare Caterina alla festa del cuginetto. Avevo voglia di vedere sorrisi di bambini. Bevo Coca Cola, ho bisogno di zucchero. Mi chiama mia mamma, ma al telefono è mia cugina: “Vieni a casa”.

Tutto in meno di due mesi. Due mesi in cui per la prima volta ho familiarizzato con la liturgia dell’ospedale. Il taxi che sale su fino ai Colli Aminei. La grande scalinata d’ingresso cocente del sole d’agosto. Il fresco dei corridoi. Follow the green line. Segui la linea verde per arrivare in reparto. L’odore metallico degli ospedali. Il gorgoglio delle bombole di ossigeno. Le tossi, gli sputi, i lamenti. E a poi a mezzogiorno, col sole prepotente sulle persiane semichiuse, l’Ave Maria di Schubert diffusa dagli altoparlanti. Che mi faceva sentire in punto di morte ogni maledetto mezzogiorno. L’angoscia che scendeva sui vassoi del pranzo, sulle bottiglie di plastica sul comodino sul libro lasciato a metà sulla poltrona. Vita e Destino di Grossman. Leggi qualcosa di più triste di quello che stai vivendo.

Ora è sul letto, con la coperta di merletto buona e la divisa da ufficiale. Ha ritrovato i lineamenti che aveva perso durante gli ultimi giorni. Io sono felice che sia successo tutto in fretta, che non ci siano state lunghe sofferenze. E sono convinta che sia stata una sua scelta andarsene così velocemente. Quasi a non voler dare fastidio. Non tutti i malati di cancro sono guerrieri. Ognuno sceglie come affrontare la battaglia. E lui ha scelto di tirare su gli ormeggi e lasciarsi andare. Come le navi che portava a morire lì, sulle spiagge in India.

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