Viaggio in Giappone-Tokyo-Giorno 1

20 August 2009

Al risveglio Tokyo è un quadrato di centro direzionale fuori alla finestrella della Weekly Mainson Hisaghi-Ikebukuro: un 12 metri quadrati di stanza dove hanno messo in ordine geometrico pefetto un letto semi-matrimoniale, un cucinino con piastra, forno a microonde e bollitore per il the, una scrivania con presa lan, scarpiera, armadio e un bagno che loro chiamano “pre-fabbricato” vale a dire una specie di cabina del telefono con dentro bagno, lavandino e doccia. I rubinetti vanno al contrario. In dotazione della stanza, che loro definiscono “semi-double”, vestagliette ( le iukata e pantofoline). Alla tv una rassegna stampa a colori psichedelici.

Avevo sperato in un notte insonne da jet-lag per andare alle 4 di notte al mercato del pesce, ma che, mi ha svegliato la sveglia alle 10 di mattina, tra poco abbiamo appuntamento con mia cugina che cui studia  per immergerci nel flusso.

Forse non dovevo prendere la pastiglia di melatonina, forse ero solo troppo stanca. Undici ore e mezza in economy si fanno sentire. Anche se ho fatto tutti gli esercizi che la tipa sullo schermo mostrava. Alza un ginocchio, ruoto la caviglia, contrai e stendi le dita dei piedi.  Affianco a me c’era Yukako ( nome italiano “Laula”, detto facendo il gesto della corona d’alloro intorno alla testa per indicare il lauro. Avrei voluto chiederle perché non avesse scelto un nome italiano senza r). Laula ha passato le 12 ore continuando a compilare file e file di fogli, sempre perfettamente “kawaii”.  Laula è la quintessenza della gentilezza giapponese: mi riporta il vassoio del pranzo nella cabina delle hostess, prima che passino a ritirarlo ( con le quali mostra grande confidenza, sarà un habituè del Roma-Tokyo), mi evidenzia in rosa tutti gli imperdibili del Giappone sulla guida e mi fa assaggiare le sue merendine al brodo di pesce, per lasciarmi il suo cellulare con la promessa di richiamarla a Osaka, dove mi vuole portare a mangiare in un  “okonomyaky” quei posti dove ti portano la pastella e tu ti cucini la frittatina sulla piastra calda al centro del tavolo.

Per fortuna non c’era vicino a me la classica giapponese con la mascherina anti-infezione: alla mia seconda soffiata di naso avrebbe sicuramente pensato che fossi un’untrice di influenza suina. In effetti all’aeroporto, il primo passaggio è passare per il gate che fornisce maschirine e foglietti illustrativi sull’influenza suina. Il secondo è al controllo passaporto dove l’addetto chiede ad Alberto se conosce la “signora Cicciolina”

Mi incollo ai vetri del Narita Express: centro direzionale, buio, esplosioni di luci e neon di Tokyo come ce la immaginiamo. Un immenso bannerone pop-up di un casinò on-line. Silenzio ovattato e veloce nel treno. Quasi due ore superveloci dalla stazione al centro. Ed eccoli: fermate di Shibuya e Shinjuku. Ed è subito Murakami Aurki. Salary man in camicia bianca e pantaloni neri, tutti con un stessa borsa nera a mano, aspettano la metropolitana ordinatamente in fila per due dietro le linee sui binari che segnano dove si apriranno le porte del treno. Non è ora di punta, non ci sono gli inservienti che ti impacchettano dentro con i guanti bianchi.

Valentina e il suo amico Hire  ci aspettano per scortarci in albergo. Hie afferra e in cinque minuti siamo alla Weekly Mainson. Sistemiamo i bagagli e poi subito in strada: Ikebukuro, per mangiare qualcosa al un “izakaya”, il pub giapponese. Si ordina cliccando su cibi su un touch-screen e dentro si fuma ( mentre per strada è vietato). Mangio spiedini di carne, facciamo lezioni di bacchette e impariamo a mettere le dita ad x per chiedere il conto.  La testa continua a girare e girare.

Mi addormentanto guardando le pubblicità dei ristoranti per televisione.

E buonanotte a Tokyo che continua a lampeggiare.

(…) ( continua…)

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