Appunti Americani – San Francisco, ultimo atto

23 April 2012

Siamo all’ultima tappa di questa America. La scrivo che siamo tornati già da una ventina di giorni e l’America e i suoi giorni sembrano lontanissimi.

(mentre guardo le luci in mezzo al mezzo al mare e penso alla notti là in America, ma sono solo le lampare o la bianca scia di un’elica)

Giorni avvolti in una nebulosa di strade, Red Hot Chilli Peppers e hamburger. Ma poi ne scrivo e focalizzo i giorni, le ore.  La scrivo e mi rendo conto che nel ricordo esisterà un “Prima del viaggio in America” e “Dopo il viaggio in America”. Forse è proprio questa la caratteristica dei viaggi. Quello che distingue un viaggio da una vacanza. Fare da spartiacque, da pietre miliari. E non per quello che nel viaggio succede. Ma quello che il viaggio fa succedere in te.

E in questa America, senza che me ne accorgessi, gli orizzonti sconfinati mi hanno allargato lo sguardo, senza che me ne accorgessi le ossessioni di un inverno lunghi due inverni e un’estate si sono sbriciolate in un fuoco nella prima sera di primavera (con un lieve e dolce crepitio, come una foglia d’autunno che calpesti con le scarpe lungo il viale).
Ma ora siamo ancora in America. Siamo ancora tra il Prima e il Dopo. Siamo sulla strada che (ri)conduce verso San Franciso e c’è il sole. Siamo al centro di San Francisco ed eccoci a guidare su strade che salgono e salgono ripidissime e poi ad un certo punto sembra che non ci sia niente sotto e per un attimo hai paura che dopo ci sia il vuoto. Il cima alla salita trattieni un attimo il fiato, dici ooooh, ma poi la strada scende,  la strada continua, il burrone non c’è e tu ridi, e poi ancora si sale, trattieni il fiato, dici oh, poi si scende e ridi. Perché qua anche quando sembra che la strada sia finita in realtà non è mai finita. E questa è una cosa che mica vale solo a San Francisco. E ce ne dovremmo ricordare. Sempre.
La nostra meta di San Francisco 2  è Lombard Street, la via dei peggiori motel di San Francisco. Siamo negli ultimi giorni di vacanza. Non è più tempo di hotel fighetti prenotati su Tablet.com. Abbiamo aperto Booking.com e  cliccato su ordina “dal prezzo più basso” scartando solo quelli con un punteggio medio di 4.3. Il Motel Americano di città si distingue dal Motel Americano al lato della highway perché ha il parcheggio più piccolo e non è che parcheggi proprio davanti alla porta della tua camera. Questo qua in effetti occupa tutta una palazzina in stile vittoriano che è pure bellina. Se si esclude la porta di ferro con le cancellate che fa immaginare che qua è meglio se ti chiudi bene a chiave. In ogni caso. Here we are. Bussiamo alla piccola reception e viene fuori un indiano con il terzo occhio dipinto in fronte. Ottimo. “Yes, we booked 3 nights, but we now we pay just one, ok?” “Okkey, okkey!”

La stanza in questione sembra uscita dai documentari di History Channel sulla morte violenta di qualche stella minore dello star system hollywoodiano. Grande grandissima. Uno stanzino per l’armadio che ci entrerebbe un letto a una piazza e mezzo, un soggiorno con divano, due poltrone e un tavolino, i soliti due letti queen. Un televisiore del 1986. Patina di decadenza che galleggia nell’aria. Il tutto, ovviamente, nei classici toni floreali spenti L’impressione generale è di quelle location dei servizi di moda di D di donna dove c’è una modella evidentemente afflitta da qualche disturbo alimentare che se sta con buttata su una moquette polverosa con affianco un telefono a disco e lo sguardo perso nel vuoto. Indossando un abitino bianco di Prada, scarpe con la zeppa indossate coi gambeletti e una borsa di 20mila euro sul letto. Ragazze, lo so che avete capito perfettamente di cosa sto parlando. Beh, comunque la cosa fantastica di questo motel americano è che possiamo tenere le due valige aperte nel guardaroba.

Usciamo subito perché c’è il sole e non abbiamo mai visto San Francisco col sole. Prima però dobbiamo fare un’operazione fondamentale: noi c’eravamo comprati l’abbonamento dell’autobus per cinque giorni prima di partire, solo che poi ce ne siamo andati via solo dopo due. E qua nel regno del silicio la data di partenza dell’abbonamento te la scrivono a penna. E quindi si può tranquillamente falsificare. I 3/13 diventano 8/18. Però voglio dire, non abbiamo tolto soldi alle casse del Comune di San Francisco. Lo usiamo sempre per 5 giorni totali.
Andiamo, ora possiamo prendere il pullman. La cosa che più mi piace di quando viaggio con Capo e Collega è che loro sono molto bravi con le mappe e con i pullman. (Mentre io so’ capace di sbagliare pure sulla linea Capri – Anacapri). Loro invece si mettono con le mappe in mano e capiscono tutto. Roba che suscita in me la più profonda ammirazione.

Andiamo in centro e per la prima volta passeggiamo sotto il sole di San Francisco, tra negozi alternativi e gente che sembra uscita dalle foto di The Sartorialist. Andiamo su per una salita tra case vittoriane coloratissime fino ad arrivare in cima a una collina. Siamo ad Alamo Square. Grandi prati verdi, la città che si stende sotto e case vittoriane ai lati. La cosa bella o brutta o neutra di questa Alamo Square e in generale di tutta San Francisco, è che ci sono molti più cani che criaturi. Su questi prati corrono felici un sacco di cani di tutte le razze, in genere di razza pura, tutti bellissimi e curatissimi. Bambini in giro non se ne vedono.

Finiamo ad Haight Street che è il quartiere fricchettone di San Francisco. Lo riconosci subito che è il quartiere fricchettone perché ci sono delle foto di rockstar morte sugli alberelli e intorno un sacco di fiori. E un sacco di negozi che vendono pipette e magliette tie and die.
Ci fermiamo a cena in una birreria piena di ragazzi bellissimi e maledettamente gay. Il posto è carino, il solo star lì a guardare la gente che entra ed esce ci incanterebbe ore, il cibo buono, il servizio lento e la birra davvero pesante. Ce ne scendiamo due grandi a testa e usciamo da là che sono le 8 di sera, ma noi siamo già così allegri che ci sembra mezzanotte.  Un ragazzo ci passa sfrecciando accanto con i rollerblade e manca a quel paese la mamma di qualcuno di noi. Noi ridiamo, lui si ferma ed estende gli epiteti a tutta la famiglia fino ai cugini di terzo grado.  In base a non so quali connessioni celebrali che a me mancano, Capo e Collega individuano dove e che pullman dobbiamo prendere per tornare al Motel. La serata finisce con 4 di noi seduti nel Nostro Soggiorno da Videoclip sulla Morte per Overdose di una Star Minore, che mettiamo su il video karaoke di Californication e cantiamo. Esiste una testimonianza video di ciò che ma che non posterò perché alcuna autorizzazione al trattamento di dati (altamente) sensibili mi è stata rilasciata.
First born unicorn. Hardcore softporn.

Fuori ha ripreso a piovere. L’insegna del motel lampeggia nella notte.

Ma il giorno dopo su SF sorge una gloriosa giornata di sole. E noi decidiamo di godercela tutta prendendo una bicicletta e arrivando fino a Sausalito. Quelli di noi che sanno portare una bicicletta. Quelli di noi convinti di saper portare una bicicletta. Io certo che la so portare una bicicletta.
(A 13 anni facevo tranquillamente Sant’Agnello – Massa Lubrense in bici. Beh, certo è pur vero che l’ultimo percorso che ho fatto in bici saranno stati i 100 metri che separavano la casa a mare nel Cilento dalla spiaggia –  Estate 2010 –. Ma se si dice “è come andare in bicicetta, non si dimentica mai” un motivo ci sarà).

In effetti manco il tempo di infilarmi il caschetto da nerd e sto già correndo sul lungomare in piedi sui pedali.

La pista ciclabile scorre liscia e piana tra il mare e i prati. Lontano brilla nel suo inconfondibile tono di rosso, il Golden Gate. Vado velocissima e mi piace pensare di essere come il vecchio Alex quando arranca su per le colline bolognesi per andare a trovare ad Aidi. Vado velocissima per la pista ciclabile tra il mare e i prati e non mi ricordo da quanto non correvo in bici col vento e il sole in faccia. Accanto, sulla pista pedonale, ragazzi in t-shirt portano a spasso schiere di cagnolini di razza.

Arranchiamo su per la collina che porta al ponte, ed eccoci. Sul ponte bisognar andar piano perché la pista è condivisa da pedoni e biciclette.  Anzi, ad un certo punto bisogna proprio fermarsi, perchè qualcuno di noi, che per privacy chiameremo E.B, ha avuto la brillante idea di mettersi su una bicicletta dopo aver preso la pillola per la pressione alta e senza aver fatto colazione. Ma per fortuna io giro sempre con le bustine contro i cali di pressione nella borsa. E poi è bello fermarsi, un piede sulla ringhiera e l’altro a terra a guardare il mare che però sembra un fiume che scorre sotto (chissà perché noi ci immaginiamo sempre ponti sui fiumi, ma questo è un ponte sul mare, come se qui ci fosse un ponte che unisse quei cinque chilometri di mare che stanno tra Punta Campanella e il Salto di Tiberio).

Arriviamo a questa Sausalito che secondo tutti era “l’Amalfi della California”. Sì, vabbuò, è una via carina sul mare e nient’altro. Mangiamo un gelato che non sa di niente e imbarchiamo la bici sul traghetto del ritorno.

Dopo aver consegnato la bici ritorniamo al Fishermar Whorf’s perché io mi ero fissata che mi dovevo mangiare la brioche scavata con la zuppa di granchio dentro. E anche un po’ di gamberi. E un fish and chips gigantesco please. E una birra nel sacchetto di carta come nei film. Ok, sì, sto a posto. Ruttino.

Tornando in hotel mi accorgo che la via parallela al nostro motel è piena di negozietti di manicure e pedicure cinese  A 10 dollari. Posso farne a meno? Non ne posso fare a meno.

Nota sul negozio di manicure e pedicure cinese
Tutti i negozietti di questa via dedicata alle unghie sono rigorosamente gestiti da cinesi. La cosa fantastica di farsi fare le mani dalle cinesi è che non ci devi parlare. E poi nessuna cinese ti farà mai una cazziata perché hai le mani rovinate e “da quanto tempo non fai la manicure?” come invece fanno le estetiste italiane. (la mia arriva a cazziarmi anche perché non mi asciugo mai in mezzo alle unghie dei piedi – roba che manco mia mamma quando avevo 4 anni).   Il negozio di manicure cinese di San Francisco è un efficientissima macchina da guerra. Entri, dici “manicure” , scegli lo smalto tra i 400 disponibili e ti fanno sedere su questa poltrona comodissima. Dopo averti limitato le unghie ti fanno pagare, così non tieni il problema di ravanare nel borsellino con lo smalto fresco e non sei costretta a stare venti minuti in più. Che è questo è proprio un problema serissimo che le estetiste in Italia non sanno affrontare.  Queste invece ti fanno pagare, poi ti mettono lo smalto, ti sistemano un caldobagno che ti soffia aria calda sulle unghie e poi ciao, quando te ne vuoi andare te ne vai. Durante totale dell’operazione: 20 minuti. Niente appuntamenti, niente intalliamienti, 10 dollari e 1 di mancia.  Così forse anche io anche io potrei essere “La Ragazza delle Unghie Sempre Perfette”.

La serata ci porterà a Mission per incontrarci con un gruppo di italiani che vive qua. Gli italiani che vivono qua (almeno quelli che ho incontrato io) hanno dinamiche di socializzazione del tutto simili a quelle di ogni gruppo di italiani in giro per il mondo (almeno quelli che ho incontrato io). Tavole di italiani mischiate a qualche spagnolo, libanese o altra gente del Medioriente. (l’alleanza Italico-Iberica è una costante internazionale). In mezzo c’è sempre un indigeno del luogo che non capisce niente, perché si finisce sempre a parlare italiano e  a cui solo ogni tanto gli si rivolge la parola in inglese, per cortesia, ma sembra tutto contento di star là e non capire niente. Margarita, un altro margarita, ricorda che al barista devi lasciare un euro di mancia, sangria, cibo messicano, non riesco mai a pronunciare bene “shirmps”, i camerieri mi fanno sempre la faccia interdetta, poi indico col dito la voce di menù e loro dicono “ah, shrimps” che mi sembra uguale a come l’ho detto io, ma si vede che uguale non è.

Il resto sono sangria e sigarette sul marciapiede e pullman notturno dove c’è sempre un tipo che caccia il suo take-away e comincia a mangiare. Io questi che si mangiano il take-away nel pullman non li mai capiti. Scusa, non te lo puoi mangiare a casa tua con tutta calma o anche solo su un panchina in mezzo alla via? Non stai più comodo che sul pullman? E non mi fai sentire a me l’odore del tuo cibo.

Il giorno dopo piove. E che amma fa? E’ il nostro destino e come tale noi ce lo abbracciamo. Torniamo ad Haight Street per un po’ di sano shopping. Io mi incanto nel negozio di Betty Page ma alla fine non mi compro niente perché tutti i vestiti hanno un altezza sotto il ginocchio che mi fa sembrare subito una nana. Il vestito che mi sono comprata a Las Vegas è quasi più mettibile, voglio dire. Dopo un lungo sperequare tra negozi vintage però esco trionfante con un jeans skinny di Banana Repubblic a 20 dollari e un golfino rosa di puro cachemire a 14 dollari. E son soddisfazioni. Ho lottato molto per farmi entrare un Diesel taglia 25 a 19,5 dollari, ma non ci sono riuscita. E dubito che entrerò mai in una 25. Già la 27 non sembra mi viene su facile. Comunque non sono ancora riuscita ad elaborare il fatto di aver lasciato là un Diesel a 19,5 dollari.

Comunque. Comunque oggi è il compleanno di Enzuccio che è vegetariano. Quindi per la sua festa andiamo a cena in una steak house. Andiamo a cena alle 5 e mezza del pomeriggio, come dei veri vecchi americani, finalmente.  Il posto è come quei posti che vedi nei film quando il ragazzo americano risparmia per portare a cena la ragazza americana in un posto carino con le tovaglie bianche di stoffa e senza ketchup a centro tavola. Moquette rossa, luci basse, dentro sembra sempre notte. La cosa fantastica di questo  tipo di posti è che ordini il Martini, loro ti riempiono il bicchiere e poi ti lasciano la borraccetta con il resto del Martini sul tavolo. La cosa fantastica di questi posti è che ti servono il burro sempre già morbido, pronto da splamare sul pane. Il burro a tavola morbido al punto giusto è proprio una di quelle cose che mi impedirebbe a vita di essere una Ragazza Magra.

Festeggiamo il compleanno di Enzuccio il Vegetariano con enormi T-Bone accompagnate da purè di tutti i tipi e allungando la forchetta verso il suo piatto di gnocchi al pesto. Martini, vino rosso e alle sette di sera è come se fosse già mezzanotte, satolli e allegrotti come siamo. Fuori continua a diluviare. “Andiamo a fare le valige”.
“Ma prima fermiamoci a comprare un po’ di medicine”
Il resto della sera siamo noi persi dentro la corsia health&personal care di un H24 riempendo i carrelli di Aspirine, integratori, pillole per dormire, pillole per stare svegli, pillole per andare in bagno, pillole per non andare in bagno. Tutta roba che mia mamma mi sequestrerà appena arrivata a casa.

Per l’ultima volta rimettiamo tutto dentro i trolley. E per l’ultima volta trasciniamo i trolley sulla moquette di un motel. Ci aspettano trenta ore di viaggio tra ritardi e coincidenze perse.

E quindi.
Cosa resterà di questa America al di là delle foto da ragazzi felici che corrono sulla spiaggia, al di à delle strade che curvano nel deserto, al di là delle luci epilettiche di Las Vegas, al di là della coperta polverosa di un motel, al di là di quel video dove ridiamo sotto la pioggia?
Gli orizzonti. Gli orizzonti aperti, infinti, sconfinati. Gli orizzonti verso cui camminare. Gli orizzonti da superare e dietro ci sarà sempre un altro orizzonte. Gli orizzonti perduti che non invecchiano mai.

Fine.

Negli episodi precendenti:
Cap 1: San Francisco
Cap 2: Le Sequoie Giganti
Cap 3: La Death Valley
Cap 4: Las Vegas
Cap 5: La Route 66
Cap 6: Hollywood
Cap 7: Il Mare della California
Cap 8:La Silicon Valley

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